Sempre più spesso, negli ultimi anni, si sente utilizzare l’espressione revenge porn, espressione della lingua inglese che indica la condivisione pubblica – per fini di vendetta – di immagini o video intimi tramite internet, senza il consenso del protagonista del video o dell’immagine stessa.

Andando un po’ più nel dettaglio, il revenge porn in senso stretto consiste nella creazione consensuale di immagini intime o sessuali all’interno di un contesto di coppia e la non consensuale pubblicazione delle stesse da parte di uno dei membri con l’intento di vendicarsi della fine della relazione. Tale espressione è utilizzata, tuttavia, nel linguaggio comune, in senso più ampio anche per indicare ogni forma di diffusione non consensuale di immagini pornografiche o comunque aventi un contenuto sessuale, a prescindere quindi dalla pregressa esistenza di una relazione sentimentale o dalla finalità ritorsiva di colui che pubblica le immagini.

Purtroppo, il revenge porn è un fenomeno oggi molto diffuso, soprattutto tra i giovani. L’attuale pandemia, inoltre, ha ulteriormente peggiorato la situazione, portando ad un incremento di tutti i reati online come cyberbullismo e revenge porn appunto, tipologie di reati impensabili venti anni fa, astrattamente ipotizzabili dieci anni fa, ma che negli ultimi anni hanno assunto una portata rilevante e preoccupante. Una ricerca dell’ottobre 2020 del Dipartimento di Pubblica Sicurezza avente per oggetto lo studio della diffusione dei reati di revenge porn nell’anno 2019- 2020 ha rivelato, ad esempio, che la Lombardia ha registrato ben 141 reati perfezionati, seguita dalla Sicilia con 82.

L’emersione di nuovi comportamenti e di nuove esigenze di tutela ha portato il Legislatore ad introdurre, con la Legge n. 69/2019, il reato di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” all’art. 612 ter c.p.

L’intervento legislativo è giunto subito dopo il caso di Tiziana Cantone, fortemente sentito anche dall’opinione pubblica. La donna, dopo la diffusione in internet contro la sua volontà di alcuni filmati hard di cui era protagonista, era stata oggetto di pesanti e continue offese e aggressioni al suo onore e alla sua reputazione che l’avevano spinta a togliersi la vita il 13 settembre 2016. Il caso ha messo in luce – forse per la prima volta in Italia – la straordinaria pericolosità del fenomeno, reso incontrollabile dagli strumenti telematici che, non solo rendono pressoché impossibile controllare e fermare la diffusione delle immagini e dei relativi commenti, ma consentono anche agli aggressori di colpire in anonimato. Pochi giorni dopo la morte di Tiziana Cantone è stato presentato il primo progetto di legge per l’introduzione di un reato specifico. Un’altra vicenda, che ha coinvolto la deputata Giulia Sarti, ha ulteriormente accelerato l’iter di approvazione, che si è concluso con la promulgazione della Legge 69/2019.

Il delitto di nuova introduzione punisce, da un lato, chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda – senza il consenso della persona rappresentata – immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che erano destinati a restare privati e, dall’altro lato, coloro che una volta ricevuto o acquisito il materiale lo inviino, consegnino, cedano, pubblichino o diffondano senza il consenso della persona rappresentata, con il fine di recare alla vittima un nocumento.

La fattispecie prevede un aumento di pena se i fatti sono commessi:

  1. dal coniuge, anche separato o divorziato;
  2. da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa;
  3. con strumenti informatici o telematici. In quest’ultimo caso, infatti, il ricorso a tali strumenti amplifica la diffusione immediata ad un numero sempre più crescente di destinatari, incrementando l’offesa subita dalla vittima;
  4. a danno di una persona che sia in condizione di inferiorità fisica o psichica o verso una donna in stato di gravidanza: in questi casi è chiaro che emerga una particolare vulnerabilità delle vittime in questione.

Il reato in esame è procedibile a querela della persona offesa, ciò con l’evidente intento di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, cagionata dal rapporto con le istituzioni ed implicante, ad esempio, la necessità di ripetere più volte la narrazione di quanto subìto e di essere soggetti a valutazioni sulla propria credibilità ed attendibilità.

In ogni caso, il consiglio per la redazione dell’atto di denuncia querela, è quello di rivolgersi sempre a professionisti in grado di mettere in luce il reale disvalore della fattispecie in tutte le sue sfaccettature e in grado di individuare consulenti informatici forensi che possano fornire il necessario supporto alla narrazione dei fatti.