Nel contesto attuale e con la progressiva espansione del web come luogo principale per la ricerca e lo scambio di informazioni ma anche come mercato unico globale per gli acquisti di prodotti, si sono moltiplicati i fenomeni di utilizzo illecito dei segni distintivi dell’impresa, che integrano atti di concorrenza sleale come previsto dall’art. 2958 c.c. .

L’Art. 2598 c.c. ,  rubricato Atti di concorrenza sleale prevede espressamente che: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

 

In particolare, i fenomeni che si sono sviluppati maggiormente sul web sono quelli legati alla diluizione e svilimento del marchio, ossia quando ne viene lesa la capacità distintiva e questo non è più in grado di individuare un prodotto specifico, cosi da ingenerare confusione nel consumatore. Tale fenomeno si può sviluppare attraverso il turnishing ovvero quando un marchio noto viene utilizzato per distinguere prodotti di qualità inferiore o attraverso il blurring, ossia l’associazione del marchio a prodotti differenti da quelli che lo caratterizzano. Tali condotte sono idonee a creare pregiudizio alla distintività del marchio ed a pregiudicarne la reputazione.

Inoltre, sul web è molto comune rilevare un utilizzo della denominazione del marchio per indirizzare il traffico internet su siti diversi da quelli ad esso legittimamente riferibili ingenerando confusione nell’utente-consumatore.

In particolare alcune delle pratiche commerciali scorrette più comuni sul web, che proprio per le caratteristiche intrinseche di questo tipo di mercato, risultano particolarmente pregiudizievoli per i titolari di marchi noti, sono le seguenti:

  1. registrazione nomi di dominio corrispondenti al marchio noto (cd. domain grabbing);
  2. adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword;
  3. utilizzo del marchio noto come username sui social network.

 

  1. Registrazione  con riferimento al marchio noto:

Tale fenomeno consiste nella registrazione di un nome di dominio corrispondente ad un marchio altrui effettuata al fine di sfruttarne la notorietà. Tale condotta può pregiudicare la registrazione di un nome di dominio contente il proprio marchio, ma soprattutto può ingenerare confusione nel consumatore e conseguente sviamento della clientela, qualora nel sito vi siano ulteriori riferimenti al predetto marchio.

La giurisprudenza si è espressa per una piena tutela del nome di dominio, riconoscendo espressamente che lo stesso appartiene al novero dei segni distintivi dell’impresa, in quanto assimilabile ad un vero e proprio diritto di proprietà industriale, comunque meritevole di tutela perché identificativo anche se a livello tecnico. In assenza di una disciplina specifica, al fine di tutelare il nome di dominio, il richiamo normativo utilizzato è quello dell’art. 7 del Codice civile che sancisce espressamente il diritto al nome prevedendo che “La persona alla quale si contesti l’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia può chiedere la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”. Inoltre, a tutela del nome a dominio, può essere richiamato il principio di unitarietà dei segni distintivi, all’art. 22 c.p.i., che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

 

  1. Adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword.

Un’ulteriore ipotesi di contraffazione online di marchi rinomati online non immediatamente percepibile dal consumatore consiste nell’uso del marchio rinomato altrui come meta-tag, ossia parole chiave, non immediatamente visibili sulla pagina web, impostate per aumentare la visibilità o la facilità di ricerca del sito web, tramite l’associazione ad una specifica pagina. Ciò ha come effetto che se l’utente ricerca quello specifico marchio, lo stesso venga indirizzato a pagine che non corrispondono allo stesso, ma che utilizzano meta tag ad esso riconducibili.

È evidente come tale utilizzo garantisca al sito web una visibilità, legata alla notorietà del marchio, che altrimenti non avrebbe e ciò con effetto diretto sullo sviamento della clientela. Inoltre, tale utilizzo spiega effetti anche sul valore del marchio che subisce un effettivo svilimento nell’essere messo a confronto con un marchio di minor valore e con prodotti di quest’ultimo.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’uso del marchio altrui nei meta-tag costituisce, oltre che una pratica di concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale, una nuova ipotesi di contraffazione. La giurisprudenza si è spinta anche a configurare tale pratica come pubblicità ingannevole ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 D.lgs. 145/2007 che prevede che “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea ledere un concorrente”.

 

  1. Utilizzo del marchio noto come username sui social network.

I social network, in particolare Facebook, Instagram e Pinterest, sono ormai veri e propri canali di acquisti di prodotti, in particolare per la moda e l’arredamento che si basano su un sistema di sollecitazione di acquisto fondato su sponsorizzazioni, post ma anche scambio di opinioni dei consumatori. I social, nei quali manca tuttavia una sostanziale regolamentazione, hanno avuto l’effetto di aver aumentato le ipotesi di contraffazione. È comune, infatti, che il titolare di un marchio rilevi la presenza di account con denominazioni identiche al proprio marchio gestiti da terzi estranei oppure riscontri l’apertura di pagine con username che riproducono la denominazione del marchio. Anche in queste ipotesi, il principio che viene in aiuto è l’unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 c.p.i., analogamente a quanto sopra esposto, che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

É evidente come l’ampiezza dei possibili contenuti che si trovano sul web e la molteplicità delle forme di commercializzazione e pubblicità danno luogo a molte e diverse ipotesi di lesione dei segni distintivi, per cui risulta sempre più necessario impostare attività di prevenzione e monitoraggio, nonché di attività dirette volti alla cessazione delle condotte descritte con interventi legali immediati a fine di scongiurare che tali pratiche possano avere importanti ricadute economiche e di prestigio sulle aziende titolari dei marchi.